Un recente articolo sulla rivista
di Alitalia “Ulisse” (Geri De Rosa, Ottobre 2017) mi ha fatto riflettere sul ruolo dei campi da gioco nelle
città, ma soprattutto ricredere sulla bellezza e sull’importanza dei playground all’interno dei centri
antichi. Negli ultimi decenni, i progetti di recupero e valorizzazione dei centri antichi (per chi, fortunatamente, è stato amministrato da persone
competenti e rigorose) sono stati basati quasi esclusivamente sulla
preservazione o sulla riconduzione ad uno stato, spesso semplicemente presunto
o ipotizzato, di strade e architetture prima che la contemporaneità ne
modificasse alcune peculiarità distintive. In altre parole un ritorno a volumi,
materiali e colori la cui selezione giura rispetto per il contesto storico e
territoriale di partenza, ma al tempo stesso lo serve e lo alimenta
tecnologicamente grazie a meticolose operazioni sotto-traccia per nascondere
impianti e condutture. In linea con questo approccio, soprattutto in Paesi come
l’Italia, difficilmente sono stati realizzati impianti sportivi attrezzati
all’interno di mura, nei cortili dei palazzi o ai piedi di simboli come
castelli e cattedrali. Meglio decentralizzare lo sport e le infrastrutture,
sempre più tecnologicamente avanzate, necessarie per la sua pratica. Un
tabellone, una rete, un gruppo di fari o di seggiolini, una pavimentazione sintetica, sono elementi che tuttora, agli occhi della maggioranza della
popolazione, sembrano in evidente contrasto con l’idea di passato e di armonia
garantita da pietre, legno e mattoni.
Per questo motivo la presenza di
un campo di basket ai piedi del Castello di Oria non ha mai suscitato in me
alcuna reazione d’interesse, né tanto meno ho mai pensato ad una sua possibile
ricostruzione. Meglio alberare e aprire nuovi varchi turistici ai piedi delle torri. Questa sensazione nasce dall’idea che un
turista sia più propenso ad ammirare un edificio di valore storico e culturale
in un contesto basso-impattante come quello offerto dalla natura organizzata in
un parco/giardino, piuttosto che apprezzare giovani nel pieno delle loro doti
fisiche e agonistiche sfidarsi ai piedi del castello svevo. È come se la
pratica sportiva fosse un elemento di disturbo, per i suoi ritmi, per i suoi
palloni sintetici, per i suoi schiamazzi, inappropriata al pari di un
condizionatore installato su un prospetto, di cavi elettrici penzolanti, di
infissi in alluminio o di automobili parcheggiate selvaggiamente.
L’articolo di Ulisse, dunque, mi ha fatto ricredere. Non tanto per l’importanza sociale che
rivestono i playground nelle città di oggi o per la loro capacità di generare
talenti riconoscenti nei confronti di quegli spazi urbani dove, a
volte al di fuori di ogni regola sportiva, hanno saputo imporsi e farsi strada.
Senza il dominio degli avversari di periferia, in tanti non sarebbero arrivati
ai canestri dell’NBA. Questo il messaggio dell’autore.
Mi ha fatto ricredere sulla
possibilità di rivitalizzare i centri antichi (senza ricorrere alle solite
sagre o rievocazioni) con la restituzione degli spazi di aggregazione ai suoi
giovani abitanti, “costretti” a muoversi al contrario, ovvero dalle periferie
verso il centro, per dare sfogo alle proprie passioni sportive. Frank Deford,
un giornalista di “Newsweek”, osservò
che l’elemento più magico dello sport popolare era sempre stato la “sua
essenziale democrazia.[…] L’arena fatta per adunare uno spazio pubblico, una
piazza del villaggio del XX secolo dove poter vivere tutti insieme un’emozione
comune”. In questa operazione la progettazione architettonica ha un ruolo
fondamentale. Può sapientemente mimetizzare (vedi immagine di anteprima dei
campi di basket tra le mura di Dubrovnik) o creativamente esasperare come nel
playground realizzato da prodigiosi street artist francesi nel quartiere
parigino di Pigalle (vedi immagine a fine post). Questo è l’unico vero punto. Affidare questi progetti a
chi, superiore in sensibilità, mette in campo le proprie qualità per
armonizzare queste aree con lo spazio circostante, superando con maestria i
limiti imposti dalle regole sportive per imporre nuovi standard di interazione
con il gioco e con lo spazio. Se guardo molte infrastrutture del nostro
meridione, provo ribrezzo nell'osservare il loro stato di abbandono o rassegnazione
nel vedere i giovani evitare questi spazi perché incapaci di sentirli propri,
con la conseguente assenza di fruizione e di tutela. Fiumi di denaro pubblico
mal speso, progetti spesso fuori mano e privi di qualsiasi identità. Non
possiamo pensare di mettere due tabelloni e dipingere due linee per terra per
dire di aver realizzato un campo di basket. Colpa dei capitolati, colpa degli
appalti, colpa delle forniture, colpa di chi antepone il ribasso economico a
qualsiasi approccio qualitativo, simbolico, attrattivo e funzionale.
Un centro antico senza giovani
muore e si auto-condanna allo stato di bomboniera se va bene, di parco a tema
se va male. A volte è più artificiale uno spazio dove tutto è dannatamente al
proprio posto di uno spazio dove il vivere quotidiano lascia in qualche modo le
sue impronte, siano esse il profumo del ragù, lenzuola stese ad asciugare o pedali di
motorini appoggiati sul cordolo di un marciapiede. Oggi riconosco che giocare a
pallacanestro ai piedi del Castello di Oria sarà stata sicuramente
un’esperienza unica nel suo genere. Uno sport d’oltreoceano esportato della
guerra ha avuto l’onore di essere praticato sullo spiazzo più alto della città.
Probabilmente chi ha giocato in questo luogo avrà assaporato quel mix irripetibile
di vento in faccia, abbraccio protettivo della storia e adrenalina di gioventù che nessun palazzo dello sport è in grado di
restituire allo stesso modo. La pallacanestro è uno sport verticale. Uno sport
pensato per uomini lunghi in cerca di uno spazio aereo libero. Uno sport che,
se giocato all’aperto, ti costringe in qualche modo a guardare cielo e nuvole. A
Oria, un tempo, ai piedi delle torri angioine, simboli verticali della
nostra città, tutto ciò è stato possibile.
"Ovviamente gli stadi sono soprattutto luoghi dove le persone si radunano per assistere a eventi sportivi. Quando i tifosi vanno allo stadio di baseball o all'arena, non lo fanno principalmente per vivere un'esperienza civica...Il carattere pubblico dell'ambientazione impartisce un insegnamento civico: che siamo tutti insieme e che almeno per poche ore condividiamo un senso di appartenenza e di orgoglio civico. Nel momento in cui gli stadi assomigliano meno a luoghi storici e più a cartelloni pubblicitari, il loro carattere pubblico svanisce. Così accade, forse, ai legami sociali e ai sentimenti civici che essi ispirano". (M.J.Sandel, Quello che i soldi non possono comprare)
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