martedì 2 agosto 2022

Dieu se cache


Musica Consigliata: True Love Waits

Una lunga attesa ha accompagnato la conclusione della prima fase della nostra vita. Nomadi, smarriti, ambulanti, sconfortati, speranzosi in un via vai adriatico del quale ricorderemo il calore asfissiante degli asfalti e il poetico luccichio sulle acque scatenato dal timido sorgere di ogni alba ad Est. Sospesi tra Romagna, Marche e Puglia, ospiti temporanei di Abruzzo e Molise ad ogni traversata. Cittadini onorari dell'A14. Viaggiatori e migranti premium di Trenitalia, Marinobus, Flixbus, Bla Bla Car e pendolari vari. Negli anni ho imparato che tutto ciò che mi interessava risiedeva nei dettagli e nei contrasti, ma soprattutto nelle cose celate, quelle che richiedono attenzione ed interpretazione. Negli anni ho visto scivolare il mio tempo e per quanto ami il controllo delle cose, le cose più importanti venivano puntualmente ritardate. Negli anni ho chiesto la presenza di Dio, il suo manifestarsi dove ne avevo bisogno. Ma Dio, sia esso un verbo, un fiume, un albero, un Crocifisso, è sempre un artista. E come ogni artista, se non provoca, se non affonda, se non nasconde i suoi veri messaggi, probabilmente artista non è. Non è Dio. Se Dio fosse disponibile ad ogni chiamata, la Fede sarebbe un banale interruttore. Ma Dio è il clochard scalzo che incontri dopo aver comprato un paio di scarpe in morbida pelle, è quel germoglio che spunta da un albero sfinito dalla siccità, è quel bambino silenzioso perso in un angolo mentre tutti gli altri schiamazzano felici in un festoso girotondo. Dio nella mia vita si è sempre nascosto, nella splendida famiglia che mi ha allevato, nella donna che sarebbe arrivata, nelle fortune che solo dopo anni sono state riconosciute come tali. La frase ricorrente in questi lunghi mesi, dopo aver comunicato una gravidanza gemellare alle persone care, è stata sempre la stessa: “così vi togliete il pensiero”, in una locuzione profondamente intrisa di lingua e cultura meridionale riservata a chi è avanti negli anni, a chi rischia di non avere figli, a chi rischia di avere un solo figlio, a chi rischia di non poter assaporare la bellezza di entrambi i sessi splendere nella propria abitazione. E mentre agli occhi degli altri stavamo gradualmente eliminando un pensiero, Dio ai nostri occhi iniziava a manifestarsi, catapultandoci nel buio degli studi ginecologici per esplorare in mistico silenzio due sacche che avrebbero riempito la nostra vita. Come pellegrini in cammino verso una meta disposti a raccogliere l’essenziale in due contenitori informi per garantirsi la realizzazione nell’esistenza terrena e la vita eterna. Esattamente quello che un figlio può rappresentare per un genitore.

Quello che ho imparato dalla gravidanza è che resta uno dei pochi momenti in cui l’essere umano torna alla sua natura animale, un corpo che si trasforma per accoglierne un altro, una crescita graduale di materiale biologico per creare le condizioni ottimali di crescita e di massima protezione. Bicoriale e biamniotica sono parole che hanno popolato la mia mente per nove lunghi mesi, mentre nessuna ecografia restituiva la dimensione di quei corpi fluttuanti che si sviluppava nella mia immaginazione. Un mondo che non vivrete mai più, un mondo di frequenze spaziali, un mondo musicale dove il vostro cuore pulsava al ritmo di 160 bpm. E mentre loro concertavano, tu ti affaticavi giorno dopo giorno, ma con quel sorriso che solo chi sta per diventare madre può riservare al mondo intero. Il sorriso di chi ha scelto di procreare e di dare continuità alle leggi dell’universo.

La gravidanza non è una malattia, ma neanche una passeggiata. La gravidanza è un tempo lungo, ma anche un’esplosione di sentimenti e di dolori che può essere ricondotta a pochi attimi. La gravidanza sono il pianto per i piedi che non puoi più lavare autonomamente, l’ombelico che scompare dal tuo campo visivo, le macchie diffuse, il passo lento, il prurito devastante che ti spingerebbe a strapparti la pelle. L’orticaria, il diabete gestazionale, l’herpes gestationis, gli integratori, i liquidi, la compressione toracica, il gonfiore. La gravidanza sono due creature che giocano in acqua e che ogni tanto bucano la sfericità del ventre, come talpe che scavano troppo in superficie e finiscono per farsi riconoscere dai predatori. La gravidanza sono quei capelli bianchi che decidi di non tingere, quella scarpa bianca che avresti voluto indossare per la festa e che resterà nelle scatole delle prossime stagioni. La gravidanza è un olio serale massaggiato sul ventre per paura che le smagliature possano restare come tracce indelebili dei nove mesi di gestazione. E tu che ogni sera mi ripetevi “che buon profumo ha quest’olio”, mentre appiattivamo gli affanni del giorno e parlavamo un po’ di noi in un rito notturno a luce fioca. E tu, lentamente, chiudevi gli occhi per dare spazio e forma al sogno, costruendo tridimensionalmente i volti dei tuoi giovani ospiti e lasciandoti andare a qualche piccola smorfia di sorriso frutto di veloci incontri pre-natali. La gravidanza non è una malattia e non è una passeggiata. La gravidanza è la prima grande rinuncia a ciò che eravamo.

Grazie per aver protetto questi mesi dal delirio social, per non aver accompagnato foto di pance con citazioni illustri pescate a caso dal web, per non aver chiesto album fotografici in stile tardo-melodico in riva al mare, per aver conservato l’intimità di una gestazione e il dialogo tra te e le creature senza che questo divenisse di pubblico dominio solo per alimentare un po’ di autostima e raccogliere pollici qua e là. Grazie per aver deciso di far parte di quella schiera di donne silenziose che custodiscono, come si custodiscono gli affetti veri, le cose realmente preziose e i sogni più grandi. Grazie per aver lavorato fino all’ultimo giorno possibile, senza ricorrere a miseri sotterfugi per sospendere la propria occupazione. Nonostante avessi tutte le carte in regola per farlo. E per aver onorato i tuoi doveri con una pancia che giorno dopo giorno ti allontanava dalla tastiera e tendeva il filo delle cuffie. Perché lavoro e diritti sono sacri fino a quando non ne si abusa, in un eccesso o nell’altro.

Quando si diventa padre è come se in tanti focalizzassero improvvisamente il centro delle loro attenzioni sui figli, dimenticando chi li ha generati. Un figlio è per sempre, ho spesso sentito affermare. Come se invece le compagne fossero a tempo. Il tempo di regalarci un erede e poi si vedrà, dipende da come andranno le cose. Spesso, in un trionfo di tenerezza, mi chiedevi se ti avrei desiderato ancora dopo questi nove mesi, con quella voce rotta dalla triste constatazione che ogni curva stesse perdendo la sua naturale posizione e dimensione. Mi provocavi buffamente interrogandomi sulla possibilità di fuggire con una ragazza più giovane. Se una volta consegnati i due pacchetti, tornando a casa, avrei consegnato al mondo una madre dimenticando di avere accanto una donna. La gravidanza non ci insegna a diventare dei bravi genitori, ma dovrebbe insegnarci almeno a rispettare la donna più di quanto ogni madre abbia insegnato ai suoi figli. La gravidanza non è il trionfo della vita, ma la costruzione di una famiglia. Mettere al mondo, partorire, dare alla luce, generare, sono azioni senza particolari responsabilità. Conservare lo stato fisico e mentale affinché tutto ciò diventi miracolo di sopravvivenza, ne richiede e tante. Ed è in questo che chiederemo l’aiuto di chi ci circonda. Un essere amato sarà sempre un essere felice.

Oggi sono nati Anna ed Ernesto. Non sono la nostra vita, non sono il nostro miglior progetto. Non sono la nostra speranza e il nostro futuro. Non c’è errore più grande dell’affidare loro quello che non siamo stati o che non siamo riusciti ad essere. Sono due esseri liberi che meritavano un’opportunità, meritavano di esistere e di farsi largo nel mondo. Perché la verità è da miliardi di anni farsi largo in quello spazio di tempo che ci viene concesso. Sono belli come sono belli tutti i bambini del mondo, impareranno a cancellare i confini e non conosceranno le differenze di colore, razza e religione. Saranno giovani Europei. I loro nomi, non a caso, si originano per vocale, la “A” che tutto apre e la “E” che tutto congiunge. Anna ed Ernesto sono nomi che appartengono alla nostra famiglia, che rappresentano il più grande diario della storia contro l’orrore umano e i diari in motocicletta di giovani vite alla conquista della loro missione nel mondo. Che la scrittura, l’ottimismo e la rivoluzione delle cose siano parte integrante delle vostre esistenze. Siete nati nel giorno della Strage di Bologna. Nel centenario della resistenza pugliese all’assalto fascista alla Camera del Lavoro di Bari. Nel giorno del Perdono di Assisi. Violenza, Resistenza, Perdono. Uno spaccato di società contemporanea e gli unici rimedi per affrontarla. Siete nati in un giorno di cicale, anticiclone africano, cielo azzurro e nuvole solitarie come quelle che da sempre popolano i disegni dei bambini. E che mi stupiscono ancora dal sesto piano di un grande ospedale, che accoglie e spegne vite con una regolarità disarmante. In un giorno di novena in una contrada che vi aspetta. In un giorno di luce in masseria con Frinkina pronta a conoscere i suoi compagni di gioco. Gallana e Zacchieri, i vostri luoghi del cuore.

Dedichiamo la loro nascita a tutti coloro che non possono avere figli. A coloro che hanno adottato i loro bambini per restituirgli un’esistenza. Alle madri che partoriscono da sole in un silenzio atroce mentre la coscienza di padri sconosciuti dorme serena altrove. A coloro che hanno intercettato per tempo la mancanza di istinto materno e paterno e preferiscono una sigaretta sul balcone ad un interminabile pianto notturno. Alle persone che con le loro storie di gravidanza hanno aperto il nostro cuore per prepararci alla genitorialità, senza farsi vittime nelle difficoltà e senza affrontare tutto con lesiva superficialità. A tutti i bambini che nasceranno in questo anno, affinchè siano una generazione responsabile, felice e costruttiva, capace di invertire questa drammatica corsa al consumo e alla ricerca delle performance. Ad Anna ed Ernesto dedichiamo le parole di Fernando Manno affinchè siano amanti e custodi della loro terra natia, “amanuensi di quanto nei secoli è nostro per transito umano, da prima che nascessimo e nelle generazioni dei figli, nostro da sempre e per un attimo nel tempo fra gli ulivi dal quale venimmo. Al quale, ammaliati di vita, morendo ci riconsegneremo”.

Perché in fin dei conti l’amore vero non è fatto di carati che brillano sul petto, non è ringozzarsi nei bouffet delle crociere. L’amore vero è nelle lacrime che precedono l’ingresso in sala parto, dove tutto esplode e tutto miracolosamente si rigenera. In quella mano appena sfiorata per dirsi “andrà tutto bene”. In quel maestrale della sera prima che urla sulle coste dell’Adriatico per anticipare l’immutabile cambiamento dopo anni dedicati al nostro “io”, alle nostre occupazioni, ai nostri viaggi, alle nostre carriere e alla nostra ricerca di stabilità. Nel fruscio degli alberi di ulivo che anticipano a rondini, lucertole, volpi, civette, carrubi, mandorli e querce l’arrivo di due cuccioli nella lunga, interminabile Puglia intrisa di bellezza. Nessuno squillo di tromba per re e principesse, ma il più grande concerto di suoni e di voci dell’estate salentina per accogliere due piccoli cuori che battono. L’amore vero è in una pausa merenda nella fatica di un trasloco, con il pancione compresso tra un cartone e l’altro a mangiare patatine su pavimenti ricoperti di polvere. Un po’ come cantano i Radiohead nel brano che introduce questa narrazione. 

L’amore vero aspetta, sempre. E a Dio piace nascondersi.

 A volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane” (Italo Calvino)