domenica 2 novembre 2014

Un bel posto dove trascorrere la morte

 
Musica consigliata: "Ballo in FA diesis minore, Angelo Branduardi

L'ETERNO RIPOSO 1 - Nel 1916 Sigurd Lewerentz, architetto svedese, vinceva il concorso per la definizione del cimitero di Malmö, con il progetto contraddistinto dal motto “Crinale”. Il progetto prevedeva il mantenimento dell’originaria situazione orografica e l’uso del profilo collinare come linea dividente le diverse zone destinate alle sepolture. Alla base del colle l’ingresso principale aperto ad inquadrare la cappella posta alla sommità del crinale, intesa come fondale prospettico del percorso d’accesso, come centro geometrico e religioso del cimitero. Tutto ciò veniva pensato in un contesto di fitti boschi attraversati da ruscelli, cascate e specchi d’acqua, ponendo chiaramente l’accento, in tal modo, sull’interpretazione della morte in seno alla natura. Questo cimitero d’autore, date le evidenti analogie morfologiche dei siti, può aiutare sicuramente, a distanza di un quasi un secolo,  una riflessione sull’ampliamento del cimitero di Oria, un progetto senz’anima che ha contribuito all’ennesima devastazione di un colle e alla creazione di un’area dalle caratteristiche più lugubri che mistiche. Il “nuovo”cimitero è, innanzitutto, uno spazio senza simboli. Un cimitero dovrebbe ricondurre all’indissolubile legame tra l’uomo e la natura, dovrebbe fornire occasioni di intimità e di raccoglimento, dovrebbe offrire un’atmosfera di dolce malinconia. La natura, in altre parole, dovrebbe essere protagonista, i percorsi studiati, gli edifici quasi nascosti. Se l’uomo torna alla terra ogni cimitero dovrebbe, in teoria, essere pervaso del profumo della terra e le tombe dovrebbero “soffrire” gli inverni, coprirsi di foglie autunnali e rinascere tra i primi germogli e tepori primaverili. Il nostro cimitero, invece, puzza di asfalti e si è abbuffato di tufo e cemento cancellando ogni traccia verde che caratterizzava quel luogo. Non è un problema di malinconie tardo settecentesche o di invidia per le croci bianche sui prati verdi degli anglosassoni; ignorare la presenza del verde o pretendere che la progettazione paesaggistica abbia un ruolo secondario e possa risolversi con semplici interventi successivi, è un problema culturale e di civiltà. Mentre altrove si studiano “passeggiate della memoria”, “colline delle rimembranze” e specchi d’acqua per purificazioni simboliche prima dell’omaggio ai propri defunti, noi abbiamo innalzato edifici degni delle peggiori periferie, soffocati e soffocanti, terribilmente diversi quasi a voler ingaggiare una sorta di guerra di potere anche nel regno dell’uguaglianza totale. Il problema, ripeto, è il nostro approccio nei confronti del cimitero, non un parco da vivere, una protesi felice e silenziosa della città che corre, ma un luogo tetro e distante, un recinto nel quale soggiornarci per non più di qualche minuto. Se a tutto ciò sommiamo la devastazione dei colli vicini, le strade adiacenti che invece di aprire splendidi panorami ci chiudono in spogli labirinti calcarenitici e parcheggi ridicoli senza organizzazione e segnaletica, la percezione dello scempio diviene ancora più accentuata. L’ampliamento del cimitero è privo, inoltre, di ordine, di qualità e di servizi essenziali. Non si possono, in un’epoca in cui la pianificazione è considerato l’unico strumento per assicurare una migliore qualità della vita, introdurre una fontanella qua ed un lampioncino là, tornare dopo mesi e pavimentare un pezzo, dimenticare la progettazione dei chioschi per i fiori o ignorare lo studio dei traffici e le distanze di gruppi di cappelle da “aree” di servizio con acqua, cestini e quant’altro. Questo cimitero, nella sua assenza di stile e di identità, diviene oggetto di scherno da parte di aspiranti graffitari o di giovani desiderosi di comunicare. Se si imbrattano le mura perimetrali, non si tratta di semplice vandalismo, ma di una netta presa di distanza nei confronti dell’antiesteticità del progetto. Il brutto, si sa, richiama il brutto e chiunque si sente in diritto di personalizzare a suo modo vergognose pareti, nonostante facciano da contorno ad un’area, nonostante tutto, sacra. La sfida per le amministrazioni future sarà quella di riqualificare e di salvare il salvabile, di restituire alla natura il suo ruolo, reale e simbolico, da sempre assunto nei complessi cimiteriali. La riforestazione, il ritorno dei cipressi e delle piante aromatiche della macchia mediterranea, la presenza di nuovi colori e di acque simboliche, la creazione di un vero paesaggio, potranno restituire almeno parzialmente un’identità allo scempio. E se un giorno la città potrà nuovamente contare su politici illuminati, suggerisco di investire tempo e risorse per le nostre città dei morti e di osare, anche con scelte impopolari, progetti che restituiscano vitalità a queste aree inerti come i marmi che le popolano. Per adesso invito chiunque ad osservare il “nuovo” cimitero ed immaginarlo, solo per qualche istante, come il “Crinale” di Lewerentz: molti di noi, molto probabilmente, riconoscerebbero che con questo ennesimo colle abbandonato al suo destino, la nostra città ha dimostrato non solo il suo affanno nel proiettarsi felicemente verso il futuro, ma la sua incapacità di dare perfino dignità alla sua memoria.

L'ETERNO RIPOSO 2 - A distanza di qualche anno, ospito sul mio blog questo articolo che ha suscitato al tempo della sua pubblicazione diverse riflessioni e molti contatti di persone e professionisti più o meno in accordo con i miei pensieri. A distanza di qualche anno non è cambiato molto, la lottizzazione procede selvaggia e riguarderà probabilmente anche la famosa unificazione delle due necropoli berlinesi, la Ovest monumentale dei nostri nonni e la Est palazzinara dei loro nipoti. La chiesa in questi anni non ha battuto ciglio, nessuno in diocesi si è preoccupato della cementificazione della morte e per la morte. Mi piacerebbe conoscere il parere del vescovo di turno e le ispirazioni dei geometri che si sono spartiti gli appezzamenti di quello che avrebbe potuto essere un bel posto dove trascorrere la morte. Ho viaggiato tanto in Europa e ho sperato tanto che un po' di lapidi sparse su prati irlandesi, sempre aperti al passante occasionale, potessero scatenare un sentimento di profonda invidia. Chi di speranza vive, di speranza muore. Ed è proprio il caso di dirlo. Mi viene in soccorso la musica di Stan Getz. Immagino foglie di quercia posarsi su tombe sferzate dal vento e croci distanziate con regolarità che si stagliano come unico vero simbolo di una secca poltiglia un tempo chiamato uomo. Immagino famiglie calpestare generazioni passate, senza dover sbirciare dalle grate di lugubri case concepite solo per produrre una eco lacerante. Immagino bambini interrogarsi sulle date di una giovane vita spezzata o fantasticare sulle lunghe stagioni di chi è andato ben oltre le aspettative di vita di questa parte di mondo. Immagino donne posare i loro fiori e canticchiare con la serenità della rassegnazione le strofe di Autumn Leaves: "Dal momento che te ne sei andato i giorni si allungano/E presto ascolterò una vecchia canzone d'inverno/Ma mi manchi più di tutto, tesoro mio/Quando le foglie d'autunno cominciano a cadere".

"C'è una poesia di Novomeský dedicata a un cimitero slovacco. In molti villaggi fra le montagne, i cimiteri non hanno recinto o ne hanno uno che quasi non si nota, sono aperti e si allargano nell'erba del prato, corrono lungo la strada come a Matiašovce, verso il confine polacco, o si trovano all'inizio del villaggio, come un giardino davanti alla porta di casa. Questa familiarità epica con la morte - che si trovava ad esempio nelle tombe musulmane in Bosnia, tranquillamente collocate nell'orto di casa, e che il nostro mondo tende invece sempre più nevroticamente a rimuovere - ha la misura della giustizia, è il senso del rapporto fra l'individuo e le generazioni, la terra, la natura, gli elementi che la compongono e la legge che presiede al loro combinarsi e disgregarsi" (Danubio, C.Magris)

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