mercoledì 12 aprile 2017

Visso mi ricorda istintivamente Venezia


Musica consigliata: Blowing in the wind, Katie Melua

Il presidente del Comitato-Sede Locale della Croce Rossa Italiana ci accoglie nel suo ufficio. Qui, nelle valli appenniniche, sembra intento a rispondere a montagne di email. É circondato di aggeggi per le telecomunicazioni come fosse nel mezzo di una legione francese sperduta tra le dune del deserto nordafricano. Ricorda la nostra telefonata, ci pensa un po’ e prima di ricevere il dono, ritiene opportuno farsi una chiacchierata e non ridurre il nostro tragitto a una semplice consegna postale. Ci trasferiamo in un’altra casetta, attigua, stesso legno, stessi impianti elettrici a vista, stessa parvenza di precarietà. Un gruppo di volontari prepara il pranzo della domenica a pochi metri dai letti a castello incolonnati in un corridoio, stretto, come stretta, strettissima, è la possibilità di privacy di chi usufruisce di questi giacigli. Un televisore al centro, casse d’acqua ovviamente Nerea depositate in un angolo, una stampante solitaria, una tavola dove probabilmente cittadini, commissari, politici e volontari trovano il giusto spazio per confrontarsi sul destino dei vissani. Molti giorni dovranno attendere per assaporare nuovamente il sapore della normalità.

Il presidente, in una rapida autoanalisi di fronte a due perfetti sconosciuti, ci confida che solo in questi ultimi giorni sta realizzando di essere un uomo, di avere una famiglia, di scoprire che il peggio non è stato tanto quello dell’emergenza affrontata da volontario, ma del silenzio che sale pian piano a distanza di pochi mesi. L'abbraccio collettivo nel mal comune, le buone parole per tutti, la stimolazione permanente a non abbandonare le speranze di ricostruzione, si stanno esaurendo lentamente al pronunciarsi di una coscienza che lo interroga sull’uomo e sul padre che sarà. “Anche io distribuivo salumi, ma ora non ho più niente, andate da Pettacci!”. Visso è stata costruita su palafitte da un architetto che pare abbia lavorato anche a Venezia. Cosa colleghi le lagune venete all’Appennino marchigiano mi è ignoto, come ignota resterà questa assurda connessione tra le tecniche costruttive compatibili sia con le pietre d’altura che con le sabbie di mare. Visso è la porta del parco dei monti Sibillini, quel parco che (sempre a detta del nostro presidente) ha più tolto con i suoi veti che dato con le sue protezioni. Se un montanaro taglia un albero a Visso non muore nessuno, se un sindaco lo taglia a Roma è giusto che la gente protesti. Il montanaro conosce la montagna e le sue leggi, continua in questo discutibile ma comunque onesto discorso di sopravvivenza, non si possono richiedere autorizzazioni anche per l’abbattimento di un albero secco. “Pensate che il figlio di un cittadino di Visso, stanco di Roma e della vita metropolitana, è tornato qui da qualche tempo e gestisce malghe estese per oltre 50 ettari. Ha costruito un caseificio, lo ha riempito di presidi e marchi di qualità, lavora e produce in quota. Da quando coltiva la terra lassù in alto, a Visso abbiamo l’acqua anche d’estate. Perché la terra trattiene l’acqua e la filtra lentamente, la roccia la butta giù con velocità e violenza e una volta passata è persa per sempre”. Non so se le cose vanno proprio così, né se ho interpretato esattamente il suo pensiero geologico, ma il fine è la dimostrazione che l’intervento dell’uomo sul creato non sia poi sempre così dannoso. 

Visso è dimenticata. Poco più di 1200 abitanti, hanno terminato le ricostruzioni obbligate dal terremoto del 1997 solo pochi anni fa. Alla scossa di agosto hanno retto, a quelle di ottobre amen, macerie, sconforto, nuova ricostruzione all’orizzonte. Ma almeno non hanno seppellito nessuno. Visso è dimenticata, perché non venera il patrono d’Europa o perché non ha mai pensato di condire la pasta con pomodori, guanciale e pecorino fresco. In altre parole ha il santo debole e la pasta comune. Eppure è lì, nascosta tra i Sibillini, che intanto luccicano sulla nostra gita fuori porta grazie a lame di pareti innevate, comunque sofferenti a causa di eccessivi tepori marzolini. Visso ha la farmacia con i condom esposti come figurine sulla finestrella del container, il bancomat ricavato sul lato minore dello shelter. Sarà un invito, forse non del tutto casuale in termini di posizionamento dei servizi, a consumare sesso e soldi, uno dei tanti mix che potrebbe servire a una popolazione frustrata dagli eventi per ripartire. Gruppi di militari infilati rigidamente in possenti anfibi esclamano un fragoroso “Mondiale!” dopo aver assaggiato un panino con bracioletta cotta alla piastra di un furgoncino. Almeno in questa dichiarazione Visso può sperare che il proprio urlo sia di portata internazionale. Peccato non faccia neanche eco, perché tutto si disperde in una sottile rassegnazione. Visso è tutta zona rossa, ma si circonda di forze dell’ordine, di curiosi della domenica, di un viavai insolito di uomini sorpresi a registrare i luoghi dove il tempo si è fermato, dove gli antichi negozi espongono ancora roba invernale, come se domani fosse un 27 ottobre rinviato a causa di improvvisi spostamenti dell’asse terrestre. 

Giovanna dona il piccolo contributo raccolto in ricordo dei suoi parenti recentemente scomparsi. Egidio e Nicola vivranno qualche ora nei pasti serviti nella mensa dei vissani, molto meglio che morire in un portafiori d’acqua puzzolente in una cappella di cemento del nord brindisino. Facciamo le foto di rito, con tanto di stretta di mano presidenziale, come se avessimo firmato un assegno per la ricostruzione dell’intera comunità entro l’estate. Non servono per alimentare un blog fariseo, ma per ricordare una giornata che merita un ricordo. Ci inviteranno, come tutti coloro che si sono ricordati dei vissani, a una festa estiva al santuario di Macereto, per ringraziare chi si è addentrato nel cuore roccioso delle Marche per abbracciare l’Italia dei piccoli comuni e salvarli da principi di spopolamento. Rientriamo a casa, cosparsi di frammenti di pace, con la bisaccia vuota traboccante di tutto perché, dicono, “ciò che doni è tuo per sempre”, liberi come al rientro da una visita inaspettata ad una casa di riposo la domenica pomeriggio, ricchi per aver trascorso del tempo ad ascoltare storie di uomini in difficoltà. La famiglia di Giovanna mi ha insegnato il concetto delle opere di bene che sostituiscono i fiori. E dell’importanza di consegnarle di persona, le opere di bene, in barba al triste anonimato di un bonifico o di un sms destinato ad alimentare il finto entusiasmo di un presentatore esaltato dall'accumulo progressivo registrato dai calcolatori televisivi. Abbiamo bisogno di rapporti, prima che di monete. 

Lasciamo la memoria di Egidio e di Nicola in queste valli. Nel frattempo appendiamo i nostri ricordi a un portasalviette sospeso al primo piano di un bagno che non c’è più. Fischer e piastrelle hanno retto e sono lì a tracciare i confini di uno spazio un tempo dedicato alla pulizia. Mi perdo nella verticalità di questo crollo, le case sezionate sono scheletri in decomposizione, fanno sempre un certo effetto. 

"Il miracolo è questo: più condividiamo, più abbiamo". (L. Nimoy)

© RIPRODUZIONE RISERVATA - Illustrazione: "Visso" - Ubaldo Spina 2017