Musica consigliata: Ain't GotNo, I Got Life - Nina Simone
Esistono
cose che non puoi nascondere. Come l’aver mangiato asparagi mentre scorre
l’urina in un bagno condiviso con un’altra persona. Così, nel giorno del mio
quarantesimo compleanno, sento di non poter nascondere un personale bisogno di
certezze, di fondamenta, di capisaldi, di paletti, di pietre miliari, di torri
di avvistamento. Di sentimenti, umori e opinioni capaci di resistere al tempo e
alla società che li aggredisce con una velocità non più controllabile. Per
quanto cambiare sia fisiologico per la sopravvivenza, azzerare significa non
riconoscere quanto di buono fatto finora e continuare a crescere come pini ormai
inesorabilmente piegati dalle folate dei venti marini.
Allora,
in un giorno così apparentemente importante, ho deciso di regalarmi un
pacchetto di certezze. Un po' di buona musica, nient’altro. Quelle canzoni che
ascolti senza interruzione in un puerile costante rewind, quelle che qualcuno
ti ha insegnato ad amare, quelle che hai scoperto da solo in un giorno di
autostrada, quelle che qualche bravo speaker radiofonico ha lavorato così bene
con le parole da fartene apprezzare l’ispirazione più che l’esecuzione.
Quaranta cover. Le canzoni originali sono le certezze, le cover il modo
migliore per riportarle in auge, interpretandone nuovamente la potenza musicale
e narrativa. Un invito a coverizzare il buono della nostra vita, i momenti in
cui ci siamo piaciuti di più, in cui abbiamo apprezzato il nostro ruolo nel
mondo, in cui siamo stati interpreti di un copione individuale, familiare e
sociale condiviso e non imposto. Quaranta canzoni per sognare e per tornare ad
essere rivoluzionari, senza farsi calpestare dagli eventi. Quaranta canzoni per
morire di malinconia al tramonto o per accettare secchiate d’acqua durante una
corsa sotto il primo temporale settembrino in una mulattiera bordata di more.
Quaranta canzoni per vivere, perché la musica a volte ci salva la vita e ci
aiuta a viaggiare dove, nella depressione latente della quotidianità, non
saremmo mai in grado di arrivare. Quaranta canzoni da lasciare a chi verrà,
come testimoni in una podistica di periferia o come antinfiammatori in borsa
dopo la cura dal dentista.
Mi
sembra di aver vissuto quattro vite. Di aver realizzato tutto e niente. Di
essere caduto troppe volte e di aver allo stesso tempo mascherato egregiamente ogni
segnale di disagio. In fin dei conti, per quanto abbia sempre elogiato il valore
dell’imperfezione o tutelato il limite che ogni essere umano porta con sé in
saccoccia, la vita non accetta passi falsi. Siamo sempre sospesi tra ascolto e
menefreghismo, tra difesa dei diritti altrui e slanci di egoismo per restare al
passo, fisico, professionale ed economico. Non avremmo il botox, le lauree
comprate o un indebitamento progressivo se ognuno accettasse se stesso nei
confini dei propri piccoli ma genuini traguardi. E questo non significa che
bisogna massacrare le ambizioni, ma evitare di corromperle sì.
Ai
miei quarant’anni ho voluto associare due scatti fotografici, appartengono al
passato ma restano per me preziosi nel loro significato. Un colloquio tra donne
nell’atmosfera rarefatta di un centro termale. Un confronto frontale di una
potenza difficile da descrivere, sfociato nel pianto della donna più forte,
arresasi di fronte all’incapacità di garantire una vita dignitosa alla sua
creatura. Una donna anziana che, in piena crisi, continua a nascondere al mondo
che la circonda tutto il suo malessere, così brava da far passare un fiume di
lacrime per una concentrazione di vapori sulfurei da asciugare in viso. E
intorno, come se nulla fosse, tutto scorre. È probabilmente una delle mie
migliori fotografie.
L’altro
scatto è invece un’arancia, un’arancia meccanica. Un frutto dimenticato,
modellatosi nel luogo che lo ha accolto fino alla sua scoperta. Questo agrume è
sotto attacco, le muffe avanzano sull’emisfero sinistro, ma l’altra metà si
difende e resiste. Al centro, quasi inviolata, la sua impronta, il suo timbro,
la sua dimensione etica, la sua personalità, una griglia bianca che ricorda il
cambio dei trattori di una volta. Così l’uomo, ogni giorno, si ritrova a
combattere gli acciacchi del tempo e le circostanze che lo mettono alla prova.
Risponde cercando di conservare la sua natura, il suo colore, le sue superfici.
Al centro le energie per decelerare e cambiare marcia, in un perenne
inspiegabile folle equilibrio.
Non
immagino mai dove la vita mi porterà. Né sono bravo a rispettare le previsioni.
Menone sapeva bene come mettere in difficoltà il maestro, formulando a Socrate
quello che sarebbe stato uno dei paradossi più studiati della storia. “E
come cercherai quello che tu ignori pienamente?”, come possiamo indirizzare
il nostro futuro se non abbiamo la minima idea di come esso possa manifestarsi?
C’è poco da fare, la grandezza di un uomo è soprattutto nelle sue domande, più
che nelle sue risposte.
Avrei
potuto trascorrere questo giorno in qualsiasi angolo della mia cara Europa o
avrei potuto spingermi fuori dai suoi confini per ammirare la bellezza e la
devastazione che salvano e attanagliano questo pianeta. Non avrei mai comunque ipotizzato
di viverlo sull’appennino romagnolo, in una terra di attraversamenti, perfetta
per chi ha il cammino nel sangue. Oggi, sette agosto duemiladiciannove, sono
nella terra che diede i natali a Tito Maccio Plauto. E anche questo, per quanto
possa sembrare casuale, non è un caso. Da qui, nell’arena plautina di Sarsina,
nel cuore di un appennino a me sconosciuto che ha da sempre collegato Roma con
la vastità del centro Europa, mi chiedo se avrò ancora la forza di recitare e
di interpretare adeguatamente il ruolo che la vita e le situazioni in qualche
modo mi hanno assegnato. Ma più di ogni cosa, forse, desidero ringraziare chi
mi ha messo al mondo e chi mi ha seguito e accompagnato con grande difficoltà
in questa lunga e meravigliosa scalata anagrafica. Perché, come direbbe Plauto
stesso, “a parer mio niente è più odioso di un ingrato. È meglio lasciar in
libertà un malfattore che lasciare nel dimenticatoio un benefattore”.
"La
speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la
realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. (Sant’Agostino)
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