mercoledì 7 agosto 2019

E come cercherai quello che tu ignori pienamente?


Musica consigliata: Ain't GotNo, I Got Life - Nina Simone

Esistono cose che non puoi nascondere. Come l’aver mangiato asparagi mentre scorre l’urina in un bagno condiviso con un’altra persona. Così, nel giorno del mio quarantesimo compleanno, sento di non poter nascondere un personale bisogno di certezze, di fondamenta, di capisaldi, di paletti, di pietre miliari, di torri di avvistamento. Di sentimenti, umori e opinioni capaci di resistere al tempo e alla società che li aggredisce con una velocità non più controllabile. Per quanto cambiare sia fisiologico per la sopravvivenza, azzerare significa non riconoscere quanto di buono fatto finora e continuare a crescere come pini ormai inesorabilmente piegati dalle folate dei venti marini.

Allora, in un giorno così apparentemente importante, ho deciso di regalarmi un pacchetto di certezze. Un po' di buona musica, nient’altro. Quelle canzoni che ascolti senza interruzione in un puerile costante rewind, quelle che qualcuno ti ha insegnato ad amare, quelle che hai scoperto da solo in un giorno di autostrada, quelle che qualche bravo speaker radiofonico ha lavorato così bene con le parole da fartene apprezzare l’ispirazione più che l’esecuzione. Quaranta cover. Le canzoni originali sono le certezze, le cover il modo migliore per riportarle in auge, interpretandone nuovamente la potenza musicale e narrativa. Un invito a coverizzare il buono della nostra vita, i momenti in cui ci siamo piaciuti di più, in cui abbiamo apprezzato il nostro ruolo nel mondo, in cui siamo stati interpreti di un copione individuale, familiare e sociale condiviso e non imposto. Quaranta canzoni per sognare e per tornare ad essere rivoluzionari, senza farsi calpestare dagli eventi. Quaranta canzoni per morire di malinconia al tramonto o per accettare secchiate d’acqua durante una corsa sotto il primo temporale settembrino in una mulattiera bordata di more. Quaranta canzoni per vivere, perché la musica a volte ci salva la vita e ci aiuta a viaggiare dove, nella depressione latente della quotidianità, non saremmo mai in grado di arrivare. Quaranta canzoni da lasciare a chi verrà, come testimoni in una podistica di periferia o come antinfiammatori in borsa dopo la cura dal dentista.

Mi sembra di aver vissuto quattro vite. Di aver realizzato tutto e niente. Di essere caduto troppe volte e di aver allo stesso tempo mascherato egregiamente ogni segnale di disagio. In fin dei conti, per quanto abbia sempre elogiato il valore dell’imperfezione o tutelato il limite che ogni essere umano porta con sé in saccoccia, la vita non accetta passi falsi. Siamo sempre sospesi tra ascolto e menefreghismo, tra difesa dei diritti altrui e slanci di egoismo per restare al passo, fisico, professionale ed economico. Non avremmo il botox, le lauree comprate o un indebitamento progressivo se ognuno accettasse se stesso nei confini dei propri piccoli ma genuini traguardi. E questo non significa che bisogna massacrare le ambizioni, ma evitare di corromperle sì.

Ai miei quarant’anni ho voluto associare due scatti fotografici, appartengono al passato ma restano per me preziosi nel loro significato. Un colloquio tra donne nell’atmosfera rarefatta di un centro termale. Un confronto frontale di una potenza difficile da descrivere, sfociato nel pianto della donna più forte, arresasi di fronte all’incapacità di garantire una vita dignitosa alla sua creatura. Una donna anziana che, in piena crisi, continua a nascondere al mondo che la circonda tutto il suo malessere, così brava da far passare un fiume di lacrime per una concentrazione di vapori sulfurei da asciugare in viso. E intorno, come se nulla fosse, tutto scorre. È probabilmente una delle mie migliori fotografie.
L’altro scatto è invece un’arancia, un’arancia meccanica. Un frutto dimenticato, modellatosi nel luogo che lo ha accolto fino alla sua scoperta. Questo agrume è sotto attacco, le muffe avanzano sull’emisfero sinistro, ma l’altra metà si difende e resiste. Al centro, quasi inviolata, la sua impronta, il suo timbro, la sua dimensione etica, la sua personalità, una griglia bianca che ricorda il cambio dei trattori di una volta. Così l’uomo, ogni giorno, si ritrova a combattere gli acciacchi del tempo e le circostanze che lo mettono alla prova. Risponde cercando di conservare la sua natura, il suo colore, le sue superfici. Al centro le energie per decelerare e cambiare marcia, in un perenne inspiegabile folle equilibrio.

Non immagino mai dove la vita mi porterà. Né sono bravo a rispettare le previsioni. Menone sapeva bene come mettere in difficoltà il maestro, formulando a Socrate quello che sarebbe stato uno dei paradossi più studiati della storia. “E come cercherai quello che tu ignori pienamente?”, come possiamo indirizzare il nostro futuro se non abbiamo la minima idea di come esso possa manifestarsi? C’è poco da fare, la grandezza di un uomo è soprattutto nelle sue domande, più che nelle sue risposte.

Avrei potuto trascorrere questo giorno in qualsiasi angolo della mia cara Europa o avrei potuto spingermi fuori dai suoi confini per ammirare la bellezza e la devastazione che salvano e attanagliano questo pianeta. Non avrei mai comunque ipotizzato di viverlo sull’appennino romagnolo, in una terra di attraversamenti, perfetta per chi ha il cammino nel sangue. Oggi, sette agosto duemiladiciannove, sono nella terra che diede i natali a Tito Maccio Plauto. E anche questo, per quanto possa sembrare casuale, non è un caso. Da qui, nell’arena plautina di Sarsina, nel cuore di un appennino a me sconosciuto che ha da sempre collegato Roma con la vastità del centro Europa, mi chiedo se avrò ancora la forza di recitare e di interpretare adeguatamente il ruolo che la vita e le situazioni in qualche modo mi hanno assegnato. Ma più di ogni cosa, forse, desidero ringraziare chi mi ha messo al mondo e chi mi ha seguito e accompagnato con grande difficoltà in questa lunga e meravigliosa scalata anagrafica. Perché, come direbbe Plauto stesso, “a parer mio niente è più odioso di un ingrato. È meglio lasciar in libertà un malfattore che lasciare nel dimenticatoio un benefattore”. 



"La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. (Sant’Agostino)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

lunedì 22 aprile 2019

Nel nome della madre


Musica consigliata: Io cammino di notte da sola, Amalia Grè

I chiostri monastici, ne sono certo, sono provvisti di pale rotanti azionate dalla mano invisibile di qualche santo. È praticamente impossibile non avvertire la presenza di una microventilazione, indipendentemente dal periodo dell’anno in cui si faccia visita. Anche in pieno agosto, infatti, in una giornata di afa piatta e torrida, si prova un certo sollievo ad entrare nel primo corridoio del quadrilatero. Questo vento misterioso ti dà il benvenuto e ti accompagna pian piano in quel cammino geometricamente vincolato, sia che tu ti muova sotto copertura, sia nell’attraversamento del giardino. Ma poi rifletto, è normale che l’aria trovi qui un luogo perfetto per divertirsi! In quali altre architetture puoi scendere dall’alto e cimentarti in uno slalom estremo tra decine di colonnine laboriosamente scolpite, oppure farti forzare dai piani superiori dell’edificio e sfondare a valle dopo aver percorso precipitosamente moltitudini di gradini? Non esiste altrove in cui l’aria possa godere di tante possibilità ricreative.

Camminiamo. Soli. Giovanna conosce bene le mie necessità primarie. Una vita tra la gente ti induce a desiderare il silenzio, almeno nel giorno del tuo compleanno. Il modo migliore per festeggiare, in questo giorno, è tornare a parlare con me stesso, senza voci, rumori, auricolari, speaker, call, skype, decolli, arrivi, partenze, urgenze, code, scadenze. Per questo ho deciso di trascorrere spesso il sette agosto camminando solitario per le strade d’Europa, festeggiando a mio modo, chiudendomi a riccio per proteggere un bisogno fisiologico.
Il chiostro di San Benedetto è popolato di arte contemporanea. Nel primo pomeriggio di un’estate pugliese i colori sono a rischio liquefazione, ma il chiostro protegge dall’esposizione diretta ai raggi solari e quel micro vento torna ancora utile per abbassare la temperatura. Una sorta di windchill per la conservazione delle opere pittoriche. Non abbiamo fretta, giriamo e rigiriamo, soffermandoci di fronte ad alcune tele, sorvolando rispetto al contenuto di altre. Questo tipo di arte merita due fasi, quella dell’interpretazione cui segue quella del gradimento. Se non si cura la prima, la seconda non si innesca. Esiste anche una componente tattile, sfiorare la materia aiuta la comprensione. Come il peggiore dei principianti, mi avvicino all’opera e mi lascio tentare da una innocua ditata nei solchi ruvidi del pennello.

Ecco, arriva da lontano. Il guardiano, il generale, il custode, l’inquisitore. Conosco già le mie colpe, non mi resta che scusarmi. Viene senza armi, ammonisce con gli occhi, sfere azzurre tendenti al grigio incapsulate in una pelle rosea, idratata, lucente, viva. Alzo le mani in segno di resa. Ma noi non volevamo solamente scusarci e lei, probabilmente, non desiderava solo riprenderci. Alessandra è la curatrice, ha molto da dirci, passeggiamo tra le opere e da come ne parla più che tele sono pagine del suo diario. Strano che un’artista pugliese abbia dipinto cupe megalopoli, strano che da una regione permeata di luce e ancora caratterizzata da agglomerati di piccole dimensioni, siano arrivate visioni urbanistiche così forti e allarmanti. Il rosso incendia molti quadri, scarichi giganti sversano acque reflue, ecomostri e sopraelevate distruggono il ricordo dell’armonica composizione di piccole architetture, sovrastandole e accogliendo auto tragicamente incolonnate. È come se fosse sempre notte nelle sue immagini, è come se tutto fosse irrimediabilmente inquinato.

Stabiliamo un contatto. Le barriere si sciolgono come colori a olio dimenticati al sole. Ci regala il catalogo della mostra, poi si sofferma sui libri dell’artista. Decido di comprarli in segno di riconoscimento per la sua preziosissima guida. Ci pensa, ma poi rifiuta il denaro. Le scappa una lacrima, come l’aria del chiostro, anche le lacrime sono brave a fuggire prima ancora che il cervello ne comandi l’arresto. La mostra, i libri, le parole, il pomeriggio d’agosto consumato in una cittadina di provincia a parlare con due sconosciuti, ogni ricordo recuperato dal passato, sono azioni per la madre, tutto è nel nome della madre. Le basta sapere che la sua memoria è viva e che giorno dopo giorno il suo nome continua a circolare arrivando a più gente possibile, oltre quello che la vita le ha concesso. Dicono che la procreazione sia la forma d’amore più alta, ma i figli sono allo stesso tempo la forma più alta d’egoismo se servono, come direbbe Stefan Zweig a proposito di libri, “a difendersi dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.

Alba Amoruso, artista pugliese, è deceduta a soli 51 anni. Nel suo libro “Lettera d’amore” ha raccontato di come si possa interpretare il mondo dalla finestra di una clinica di Lubiana, mentre la neve scende lenta in una capitale d’Europa e tu agonizzi lentamente al pensiero di quello che potrebbe accadere o cerchi di racimolare qua e là piccole speranze di salvezza. Oggi è il suo compleanno. I pensieri di Alba sono nella nostra libreria, io e Giovanna ci siamo innamorati di un suo quadro e parleremo di lei con cognizione, citandola con entusiasmo quando ne avremo l’occasione. Alessandra Trapanà è riuscita nel suo intento, nel nome della madre. 

"Do you have any regrets? No, everything that has happened in my existence had to happen. I have mainly learnt from the mistakes made in my worst periods, not in the best ones". (Marina Abramović)

© RIPRODUZIONE RISERVATA