mercoledì 8 novembre 2017

European playgrounds: l'importanza di giocare in città


Musica consigliata: Basket Case, Green Day

Un recente articolo sulla rivista di Alitalia “Ulisse” (Geri De Rosa, Ottobre 2017) mi ha fatto riflettere sul ruolo dei campi da gioco nelle città, ma soprattutto ricredere sulla bellezza e sull’importanza dei playground all’interno dei centri antichi. Negli ultimi decenni, i progetti di recupero e valorizzazione dei centri antichi (per chi, fortunatamente, è stato amministrato da persone competenti e rigorose) sono stati basati quasi esclusivamente sulla preservazione o sulla riconduzione ad uno stato, spesso semplicemente presunto o ipotizzato, di strade e architetture prima che la contemporaneità ne modificasse alcune peculiarità distintive. In altre parole un ritorno a volumi, materiali e colori la cui selezione giura rispetto per il contesto storico e territoriale di partenza, ma al tempo stesso lo serve e lo alimenta tecnologicamente grazie a meticolose operazioni sotto-traccia per nascondere impianti e condutture. In linea con questo approccio, soprattutto in Paesi come l’Italia, difficilmente sono stati realizzati impianti sportivi attrezzati all’interno di mura, nei cortili dei palazzi o ai piedi di simboli come castelli e cattedrali. Meglio decentralizzare lo sport e le infrastrutture, sempre più tecnologicamente avanzate, necessarie per la sua pratica. Un tabellone, una rete, un gruppo di fari o di seggiolini, una pavimentazione sintetica, sono elementi che tuttora, agli occhi della maggioranza della popolazione, sembrano in evidente contrasto con l’idea di passato e di armonia garantita da pietre, legno e mattoni.

Per questo motivo la presenza di un campo di basket ai piedi del Castello di Oria non ha mai suscitato in me alcuna reazione d’interesse, né tanto meno ho mai pensato ad una sua possibile ricostruzione. Meglio alberare e aprire nuovi varchi turistici ai piedi delle torri. Questa sensazione nasce dall’idea che un turista sia più propenso ad ammirare un edificio di valore storico e culturale in un contesto basso-impattante come quello offerto dalla natura organizzata in un parco/giardino, piuttosto che apprezzare giovani nel pieno delle loro doti fisiche e agonistiche sfidarsi ai piedi del castello svevo. È come se la pratica sportiva fosse un elemento di disturbo, per i suoi ritmi, per i suoi palloni sintetici, per i suoi schiamazzi, inappropriata al pari di un condizionatore installato su un prospetto, di cavi elettrici penzolanti, di infissi in alluminio o di automobili parcheggiate selvaggiamente.

L’articolo di Ulisse, dunque, mi ha fatto ricredere. Non tanto per l’importanza sociale che rivestono i playground nelle città di oggi o per la loro capacità di generare talenti riconoscenti nei confronti di quegli spazi urbani dove, a volte al di fuori di ogni regola sportiva, hanno saputo imporsi e farsi strada. Senza il dominio degli avversari di periferia, in tanti non sarebbero arrivati ai canestri dell’NBA. Questo il messaggio dell’autore.

Mi ha fatto ricredere sulla possibilità di rivitalizzare i centri antichi (senza ricorrere alle solite sagre o rievocazioni) con la restituzione degli spazi di aggregazione ai suoi giovani abitanti, “costretti” a muoversi al contrario, ovvero dalle periferie verso il centro, per dare sfogo alle proprie passioni sportive. Frank Deford, un giornalista di “Newsweek”, osservò che l’elemento più magico dello sport popolare era sempre stato la “sua essenziale democrazia.[…] L’arena fatta per adunare uno spazio pubblico, una piazza del villaggio del XX secolo dove poter vivere tutti insieme un’emozione comune”. In questa operazione la progettazione architettonica ha un ruolo fondamentale. Può sapientemente mimetizzare (vedi immagine di anteprima dei campi di basket tra le mura di Dubrovnik) o creativamente esasperare come nel playground realizzato da prodigiosi street artist francesi nel quartiere parigino di Pigalle (vedi immagine a fine post). Questo è l’unico vero punto. Affidare questi progetti a chi, superiore in sensibilità, mette in campo le proprie qualità per armonizzare queste aree con lo spazio circostante, superando con maestria i limiti imposti dalle regole sportive per imporre nuovi standard di interazione con il gioco e con lo spazio. Se guardo molte infrastrutture del nostro meridione, provo ribrezzo nell'osservare il loro stato di abbandono o rassegnazione nel vedere i giovani evitare questi spazi perché incapaci di sentirli propri, con la conseguente assenza di fruizione e di tutela. Fiumi di denaro pubblico mal speso, progetti spesso fuori mano e privi di qualsiasi identità. Non possiamo pensare di mettere due tabelloni e dipingere due linee per terra per dire di aver realizzato un campo di basket. Colpa dei capitolati, colpa degli appalti, colpa delle forniture, colpa di chi antepone il ribasso economico a qualsiasi approccio qualitativo, simbolico, attrattivo e funzionale.

Un centro antico senza giovani muore e si auto-condanna allo stato di bomboniera se va bene, di parco a tema se va male. A volte è più artificiale uno spazio dove tutto è dannatamente al proprio posto di uno spazio dove il vivere quotidiano lascia in qualche modo le sue impronte, siano esse il profumo del ragù, lenzuola stese ad asciugare o pedali di motorini appoggiati sul cordolo di un marciapiede. Oggi riconosco che giocare a pallacanestro ai piedi del Castello di Oria sarà stata sicuramente un’esperienza unica nel suo genere. Uno sport d’oltreoceano esportato della guerra ha avuto l’onore di essere praticato sullo spiazzo più alto della città. Probabilmente chi ha giocato in questo luogo avrà assaporato quel mix irripetibile di vento in faccia, abbraccio protettivo della storia e adrenalina di gioventù che nessun palazzo dello sport è in grado di restituire allo stesso modo. La pallacanestro è uno sport verticale. Uno sport pensato per uomini lunghi in cerca di uno spazio aereo libero. Uno sport che, se giocato all’aperto, ti costringe in qualche modo a guardare cielo e nuvole. A Oria, un tempo, ai piedi delle torri angioine, simboli verticali della nostra città, tutto ciò è stato possibile.

"Ovviamente gli stadi sono soprattutto luoghi dove le persone si radunano per assistere a eventi sportivi. Quando i tifosi vanno allo stadio di baseball o all'arena, non lo fanno principalmente per vivere un'esperienza civica...Il carattere pubblico dell'ambientazione impartisce un insegnamento civico: che siamo tutti insieme e che almeno per poche ore condividiamo un senso di appartenenza e di orgoglio civico. Nel momento in cui gli stadi assomigliano meno a luoghi storici e più a cartelloni pubblicitari, il loro carattere pubblico svanisce. Così accade, forse, ai legami sociali e ai sentimenti civici che essi ispirano". (M.J.Sandel, Quello che i soldi non possono comprare)


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