Musica consigliata: "Ballo in FA diesis minore, Angelo Branduardi"
L'ETERNO RIPOSO 1 - Nel
1916 Sigurd Lewerentz, architetto svedese, vinceva il concorso per la
definizione del cimitero di Malmö, con il progetto contraddistinto dal motto “Crinale”.
Il progetto prevedeva il mantenimento dell’originaria situazione orografica e
l’uso del profilo collinare come linea dividente le diverse zone destinate alle
sepolture. Alla base del colle l’ingresso principale aperto ad inquadrare la
cappella posta alla sommità del crinale, intesa come fondale prospettico del
percorso d’accesso, come centro geometrico e religioso del cimitero. Tutto ciò
veniva pensato in un contesto di fitti boschi attraversati da ruscelli, cascate
e specchi d’acqua, ponendo chiaramente l’accento, in tal modo, sull’interpretazione
della morte in seno alla natura. Questo cimitero d’autore, date le evidenti
analogie morfologiche dei siti, può aiutare sicuramente, a distanza di un quasi
un secolo, una riflessione sull’ampliamento
del cimitero di Oria, un progetto senz’anima che ha contribuito all’ennesima
devastazione di un colle e alla creazione di un’area dalle caratteristiche più
lugubri che mistiche. Il “nuovo”cimitero è, innanzitutto, uno spazio senza
simboli. Un cimitero dovrebbe ricondurre all’indissolubile legame tra l’uomo e
la natura, dovrebbe fornire occasioni di intimità e di raccoglimento, dovrebbe
offrire un’atmosfera di dolce malinconia. La natura, in altre parole, dovrebbe
essere protagonista, i percorsi studiati, gli edifici quasi nascosti. Se l’uomo
torna alla terra ogni cimitero dovrebbe, in teoria, essere pervaso del profumo
della terra e le tombe dovrebbero “soffrire” gli inverni, coprirsi di foglie
autunnali e rinascere tra i primi germogli e tepori primaverili. Il nostro
cimitero, invece, puzza di asfalti e si è abbuffato di tufo e cemento
cancellando ogni traccia verde che caratterizzava quel luogo. Non è un problema
di malinconie tardo settecentesche o di invidia per le croci bianche sui prati
verdi degli anglosassoni; ignorare la presenza del verde o pretendere che la
progettazione paesaggistica abbia un ruolo secondario e possa risolversi con
semplici interventi successivi, è un problema culturale e di civiltà. Mentre
altrove si studiano “passeggiate della memoria”, “colline delle rimembranze” e
specchi d’acqua per purificazioni simboliche prima dell’omaggio ai propri
defunti, noi abbiamo innalzato edifici degni delle peggiori periferie,
soffocati e soffocanti, terribilmente diversi quasi a voler ingaggiare una
sorta di guerra di potere anche nel regno dell’uguaglianza totale. Il problema,
ripeto, è il nostro approccio nei confronti del cimitero, non un parco da
vivere, una protesi felice e silenziosa della città che corre, ma un luogo
tetro e distante, un recinto nel quale soggiornarci per non più di qualche
minuto. Se a tutto ciò sommiamo la devastazione dei colli vicini, le strade
adiacenti che invece di aprire splendidi panorami ci chiudono in spogli
labirinti calcarenitici e parcheggi ridicoli senza organizzazione e segnaletica,
la percezione dello scempio diviene ancora più accentuata. L’ampliamento del
cimitero è privo, inoltre, di ordine, di qualità e di servizi essenziali. Non
si possono, in un’epoca in cui la pianificazione è considerato l’unico
strumento per assicurare una migliore qualità della vita, introdurre una
fontanella qua ed un lampioncino là, tornare dopo mesi e pavimentare un pezzo,
dimenticare la progettazione dei chioschi per i fiori o ignorare lo studio dei
traffici e le distanze di gruppi di cappelle da “aree” di servizio con acqua,
cestini e quant’altro. Questo cimitero, nella sua assenza di stile e di
identità, diviene oggetto di scherno da parte di aspiranti graffitari o di
giovani desiderosi di comunicare. Se si imbrattano le mura perimetrali, non si
tratta di semplice vandalismo, ma di una netta presa di distanza nei
confronti dell’antiesteticità del progetto. Il brutto, si sa, richiama il
brutto e chiunque si sente in diritto di personalizzare a suo modo vergognose
pareti, nonostante facciano da contorno ad un’area, nonostante tutto, sacra. La
sfida per le amministrazioni future sarà quella di riqualificare e
di salvare il salvabile, di restituire alla natura il suo ruolo, reale e
simbolico, da sempre assunto nei complessi cimiteriali. La riforestazione, il
ritorno dei cipressi e delle piante aromatiche della macchia mediterranea, la
presenza di nuovi colori e di acque simboliche, la creazione di un vero paesaggio,
potranno restituire almeno parzialmente un’identità allo scempio. E se un
giorno la città potrà nuovamente contare su politici illuminati, suggerisco di
investire tempo e risorse per le nostre città dei morti e di osare, anche con
scelte impopolari, progetti che restituiscano vitalità a queste aree inerti
come i marmi che le popolano. Per adesso invito chiunque ad osservare il
“nuovo” cimitero ed immaginarlo, solo per qualche istante, come il “Crinale” di
Lewerentz: molti di noi, molto probabilmente, riconoscerebbero che con questo
ennesimo colle abbandonato al suo destino, la nostra città ha dimostrato non
solo il suo affanno nel proiettarsi felicemente verso il futuro, ma la sua incapacità
di dare perfino dignità alla sua memoria.
L'ETERNO RIPOSO 2 - A distanza di qualche anno, ospito sul mio blog questo articolo che ha suscitato al tempo della sua pubblicazione diverse riflessioni e molti contatti di persone e professionisti più o meno in accordo con i miei pensieri. A distanza di qualche anno non è cambiato molto, la lottizzazione procede selvaggia e riguarderà probabilmente anche la famosa unificazione delle due necropoli berlinesi, la Ovest monumentale dei nostri nonni e la Est palazzinara dei loro nipoti. La chiesa in questi anni non ha battuto ciglio, nessuno in diocesi si è preoccupato della cementificazione della morte e per la morte. Mi piacerebbe conoscere il parere del vescovo di turno e le ispirazioni dei geometri che si sono spartiti gli appezzamenti di quello che avrebbe potuto essere un bel posto dove trascorrere la morte. Ho viaggiato tanto in Europa e ho sperato tanto che un po' di lapidi sparse su prati irlandesi, sempre aperti al passante occasionale, potessero scatenare un sentimento di profonda invidia. Chi di speranza vive, di speranza muore. Ed è proprio il caso di dirlo. Mi viene in soccorso la musica di Stan Getz. Immagino foglie di quercia posarsi su tombe sferzate dal vento e croci distanziate con regolarità che si stagliano come unico vero simbolo di una secca poltiglia un tempo chiamato uomo. Immagino famiglie calpestare generazioni passate, senza dover sbirciare dalle grate di lugubri case concepite solo per produrre una eco lacerante. Immagino bambini interrogarsi sulle date di una giovane vita spezzata o fantasticare sulle lunghe stagioni di chi è andato ben oltre le aspettative di vita di questa parte di mondo. Immagino donne posare i loro fiori e canticchiare con la serenità della rassegnazione le strofe di Autumn Leaves: "Dal momento che te ne sei andato i giorni si allungano/E presto ascolterò una vecchia canzone d'inverno/Ma mi manchi più di tutto, tesoro mio/Quando le foglie d'autunno cominciano a cadere".
"C'è una poesia di Novomeský dedicata a un cimitero slovacco. In molti villaggi fra le montagne, i cimiteri non hanno recinto o ne hanno uno che quasi non si nota, sono aperti e si allargano nell'erba del prato, corrono lungo la strada come a Matiašovce, verso il confine polacco, o si trovano all'inizio del villaggio, come un giardino davanti alla porta di casa. Questa familiarità epica con la morte - che si trovava ad esempio nelle tombe musulmane in Bosnia, tranquillamente collocate nell'orto di casa, e che il nostro mondo tende invece sempre più nevroticamente a rimuovere - ha la misura della giustizia, è il senso del rapporto fra l'individuo e le generazioni, la terra, la natura, gli elementi che la compongono e la legge che presiede al loro combinarsi e disgregarsi" (Danubio, C.Magris)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento